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Prima di SKAtenarci

Tempo di lettura: 4 min.

#Marginalia diciannove

Conoscere il prezzo di tutto e il valore di niente.
Lo diceva già Oscar Wilde, due secoli e mezzo fa, che il mondo funziona alla rovescia: la domanda giusta da porsi è sempre “Quanto vale?” e mai “Quanto costa?”

Ciononostante tutto è sottoposto all’impietosa legge del mercato. E la musica non fa eccezione. A certe latitudini e in determinati periodi storici, “comprarla” costava veramente tanto… tanta, però, era anche la brama di averne una dose a tutti i costi.

Non so quale dio abbia ascoltato le preghiere popolari del festante e modesto popolo giamaicano degli anni ’50 ma, ad un certo punto, so quale dio hanno adorato forse più di qualunque altro: il sound system!
Il #marginalia di oggi suona così:

I feel good di Owen Gray (1962)

Quando il reggae non esisteva e ancor prima che nascesse lo ska, negli anni ’50, la Giamaica aveva già alle spalle una lunga tradizione musicale.
La musica era stata la colonna sonora dell’indipendenza e, al tempo stesso, aveva accompagnato le vicende dei rude boys, giovani ed eleganti giamaicani, generalmente di bassa estrazione sociale, che avevano fatto del “sound da strada” e della vita sregolata una norma esistenziale.

Prima dello ska, dicevamo.
Nei favolosi fifties la Giamaica era una delle mete predilette per le vacanze dei giovani musicisti americani, che – con tutto il rispetto per le meravigliose spiagge – la sceglievano principalmente per le maggiori libertà concesse in materia di alcolici e stupefacenti.
Così, tra un cocktail e una suonata improvvisata, i produttori locali scovavano in giro i suonatori villeggianti (spesso jazzisti), li portavano in studio a registrare e qui producevano una copia unica dei pezzi. Low cost, ma dal valore inestimabile!

Nel frattempo casse e giradischi avevano preso a popolare le strade, sì le strade: arrivava un disk jockey e montava un sound system, una delle più belle e aggreganti invenzioni di sempre. Musica nuova e spesso unica, perché appunto registrata in una singola copia, qualche bevuta e la componente fondamentale di ogni festa che si rispetti: il calore delle persone!

Uno dei primissimi sound system

I dj – animali mitologici con la competizione nel sangue – facevano delle vere e proprie battaglie tra sound system, occupando le sponde opposte della medesima strada, il più delle volte. I più fighi, neanche a dirlo, erano quelli coi dischi originali, di cui spesso erano anche i produttori.
Musica fatta in casa e consumata take away, dunque. Ma, dalla seconda metà della decade, i sound iniziano ad essere costruiti nei laboratori specializzati, come quello di Hedley Jones, l’ideatore della cosiddetta speaker cabinet (cassa-armadio) chiamata “Houses of joy”.
Il nome più azzecato di sempre, non trovate?

Duke Reid e il suo fantastico sound system

Duke Reid all’anagrafe Arthur – classe 1915 negli anni ’50 era il proprietario del Duke Reid’s The Trojan (chiamato così dal nome dei camion britannici usati per trasportare l’apparecchiatura) e, allo svincolo del secolo successivo, fonda l’etichetta discografica Treasure Isle sopra al suo omonimo negozio di liquori.
Fan sfegatato di Fats Domino, Reid incarnava a pieno la tendenza del periodo a copiare l’R&B americano impiegando musicisti locali. La formula era quella della jam session, per cui in quasi tutte le band suonavano gli stessi componenti, spesso – però – variando il proprio ruolo: cantanti che fungevano qua da solisti e là da coristi, chitarristi che diventavano bassisti e così via.

Non solo il rhythm n blues venne emulato in quegli anni, ma anche le sinfonie dei gruppi vocali… grazie Derrick Harriot e Jiving juniors per il vostro incredibile jamaican doo wop!

Le rivisitazioni dei suoni americani, però, non presero la strada di una copia (pretesto col quale erano nate), piuttosto – e per fortuna – fondendosi con i modi e con i suoni locali, diedero vita ad un vero e proprio genere nuovo, unico e tipicamente giamaicano: lo ska.

Nel frattempo, i reduci inglesi della seconda Guerra Mondiale, una volta tornati in patria, non la trovarono florida e ricca come era stata promessa, perciò si rifiutarono di svolgere – dopo aver servito la nazione – lavori umili e degradanti. C’era bisogno di manodopera e quale miglior posto se non le ex colonie per farne scorta? I rude boys, belli e dannati, fanno così il loro ingresso nella working class britannica, portandosi dietro le nuove sonorità giamaicane. Ormai, a tutti gli effetti, lo ska espatria con loro.

Laurel Aitken è stato uno dei primi musicisti ska a stabilirsi in Inghilterra, dove i suoi dischi hanno sempre avuto un ottimo mercato, a volte fruttando in modo impressionante: “Mary Lee”, uno dei primi singoli, ha venduto 80.000 copie solo nel Regno Unito.

Ci sono voluti un paio d’anni prima che lo ska – o blue beat, come era anche noto – riuscisse a penetrare in maniera profonda nel mondo della sottocultura britannica, tuttavia quando accadde lasciò una traccia indelebile ed imperitura… ma questa è un’altra storia!

Alle origini dello ska, potente come una cassa che invade le strade, il sound system è uno delle testimonianze più belle in assoluto di due valori che non dovrebbero mai abbandonare l’animo di chi ama la musica: la condivisione e la salvaguardia del suo valore, oltre qualsiasi ragionevole prezzo.
Una selezione giusta, in un momento esistenziale sbagliato, funziona più di qualsiasi medicina, per l’anima.
Grazie musicisti, grazie dj, you satisfy our souls!

Baci velenosi e rumorosi,
Vanì Venom

Vanì Venom

Vanì Venom è l’alter-ego, a metà tra il letterario e il rocker, di Vanina Pizii, una giovane professoressa di Lettere appassionata di musica anni ’40 ’50 e ’60 e di tutto ciò che concerne il lifestyle legato al mondo vintage: dischi, foto, abiti, libri, arredi, auto e chi più ne ha più ne metta!

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