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King Johnny nero su bianco

Tempo di lettura: 4 min.

#Marginalia ventitré

Cosa rende un re degno del titolo che incarna? Non certo il regno, né lo scettro o l’insieme dei sudditi. Un re è un re se si sente un re.

“King è chi il king fa”, direbbe Johnny Otis parafrasando la celebre frase di un film. O forse no. Non direbbe niente quel pezzo da 90 di Johnny… non avrebbe alcuna necessità di dare spiegazioni.
King si sentiva, King era e King si proclamava, fregandosene altamente delle possibili obiezioni!

Ve l’ho detto, no, che non le mandava a dire? Con tanto di corona ed epigrafe chiarissima!

Questa è la storia di una grande verità. E le grandi verità, seppure lapalissiane, alle volte vanno ribadite, affinché nessuno le dimentichi mai e cosicché gli scettici cronici comincino a farci l’abitudine: il blues è un sentimento. E i sentimenti non hanno colore. Perciò, nero su bianco, state per leggere della vita straordinaria di un uomo che non ha mai distinto il nero dal bianco.

https://www.youtube.com/watch?v=iN3Xu_8vJb0
Un assaggio delle bombe che King Otis ha sganciato nel mondo. 1956

Polistrumentista, disc jokey, produttore discografico e teatrale, arrangiatore e “Padrino” del Rhythm and blues, Ioannis Alexandres Veliotes nasce nel 1921 a Vallejo, in California, e cresce in un quartiere prevalentemente nero a Berkeley.
La sua famiglia è emigrata dalla Grecia un ventennio prima: il padre Alexander gestisce un piccolo alimentari e arrotonda facendo lo scaricatore di porto, la madre Irene è una pittrice, il fratello maggiore un ambasciatore USA in Giordania. Lui, invece, è destinato a diventare un re.  

A 18 anni appena compiuti inizia la sua carriera musicale come batterista nella Count Otis Matthew’s West Oakland House Rockers. Nel 1943, su raccomandazione di Nat Cole e Jimmy Witherspoon, si trasferisce a Los Angeles per unirsi ai Kansas City Rockets di Harlan Leonard. Nel 1945 riveste finalmente il ruolo di leader che gli compete, a capo della sua band. Quello è anche l’anno del suo primo grande successo: “Harlem Nocturne”. Nel ’48 il miracolo: raccata i musicisti Bardu Ali e Johnny Miller per aprire The Barrelhouse a Los Angeles, il primo nightclub a presentare esclusivamente Rhythm & Blues!

https://www.youtube.com/watch?v=Bm-auU29pT8
Chissà quant’erano giovani le notti al Barrelhouse!

Ripartiamo dalla fine.
Johnny Otis si è guadagnato un posto nella Rhythm & Blues Hall of Fame, nella Blues Hall of Fame e nella Rock & Roll Hall of Fame. L’Archives of African American Music and Culture dell’Università dell’Indiana ha catalogato centinaia di ore dei suoi programmi radiofonici per il grande valore storico che rivestono per la cultura nera e, in generale, per la Cultura, senza distinzioni di colore alcuno.

Perché tanto – meritatissimo- riguardo?
Senza di lui, Signore e Signori, non avremmo mai conosciuto Esther Phillips, Willie Mae “Big Momma” Thornton, Etta James e i Robins (che in seguito sono confluiti, in parte, nei Coasters), Jackie Wilson e Little Willie John.
E, diciamocelo, che mondo di merda sarebbe stato senza i loro ruggiti blues.

Eccoli, i Coasters, uno tra i più fighi gruppi vocali della storia

Non basta? Ah no?  
Ha suonato in “Pledging My Love” di Johnny Ace e ha prodotto alcune delle prime registrazioni di Little Richard. Per la sua etichetta, la Blues Spectrum, Johnny ha inciso e spartito il palco con i pionieri del Rhythm & Blues: Big Joe Turner, Gatemouth Moore, Amos Milburne, Richard Berry, Joe Liggins, Roy Milton, Eddie “Cleanhead” Vinson, Charles Brown e Louis Jordan. 
Negli anni ’60 è stato investito di varie cariche statali onorifiche ed ha scritto una serie di libri fondamentali per l’integrazione razziale e l’esaltazione della musica più bella del mondo (sì, scusate, sono di parte e lo dico con fierezza).

Le vite degli altri… che coacervo di contraddizioni e meraviglie, agli occhi di chi le guarda da fuori.
Ve ne sono alcune – è indubbio – che sembrano non aver sprecato neppure un attimo, neanche un respiro, condensando nel tempo concesso tutto quello che mai avrebbero neppure immaginato. Penso che Johnny Otis, dal posto d’onore nell’Inferno paradisiaco dei musicisti da cui spero mi stia guardando, si sia domandato, tra sé e sé: “Chi l’avrebbe mai detto che io, il figlio di un emigrato che ha fatto qualsiasi cosa pur di riscattarsi, bianco, avrei cambiato il mondo della musica nera?”

È proprio così che si dovrebbe portare a spasso l’esistenza, spingendola sull’orlo del “è impossibile, ma facciamolo”. Gli anni scorrono in fretta, più veloce di una puntina sul disco, ma – come lei – seguono i solchi che abbiamo creato. Scavati a suon di cambiamenti, di scelte folli, di idee più o meno ponderate, di botte di (s)fortuna.
Provate ad essere la versione più inaspettata di voi stessi, contro qualsiasi dettame esterno… mal che vada sarà un piccolo disastro, ma avrete sempre un solco bellissimo, come lo sono tutte le cicatrici, da far risuonare!

Baci velenosi e blues,
Vanì Venom

Vanì Venom

Vanì Venom è l’alter-ego, a metà tra il letterario e il rocker, di Vanina Pizii, una giovane professoressa di Lettere appassionata di musica anni ’40 ’50 e ’60 e di tutto ciò che concerne il lifestyle legato al mondo vintage: dischi, foto, abiti, libri, arredi, auto e chi più ne ha più ne metta!

2 pensieri su “King Johnny nero su bianco

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