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Cabaret is the answer

Tempo di lettura: 4 min.

#Marginalia ventidue

Le piccole e grandi tragedie, per quanto alle volte sembrino davvero sconvolgenti, celano in sé un barlume di conforto: fanno più paura la prima volta che si presentano, ma quando – tenaci – tornano a bussare alla porta, ancora e ancora, nonostante la stanchezza, è più semplice riuscire a reagire.
I vecchi saggi direbbero: “Se lo conosci, lo eviti”. Se non si può evitare, però, che almeno si faccia tesoro del bagaglio di sopravvivenza accumulato, no?

State tranquilli, amiche e amici di #marginalia… agli anni ’20 l’umanità è già sopravvissuta una volta!

L’interno di un famoso night club di Chicago in uno scatto del magazine Life del 1936

Cosa sia o cosa non sia il cabaret pare difficile da stabilire. Come spesso accade con i concetti compositi, esso racchiude sfaccettature variegate e impossibili da imbrigliare in un’univoca accezione: danza, teatro, musica, erotismo.
Tutte le anime delle migliori forme d’arte si compenetrano nel profondo e si scambiano effluvi, dando vita ad una forma espressiva così poco irreggimentata da seguire una regola soltanto, che smentisce però tutte le altre: la Libertà.

Il germe dell’idea cabarettistica – quale la si intende oggi – affonda probabilmente le sue radici in secoli addietro: i primi vaudeville, commedie leggere e brillanti in cui satira e suoni convivono su palchi itineranti e di fortuna, iniziano infatti a circolare nel Vecchio Continente già alla fine del ‘700.
Il misto di recitazione intervallata da canzoni e balletti appare fin da subito una trovata vincente, coinvolgendo il pubblico e distraendolo dalle pregnanti questioni storiche che attanagliano l’Europa all’alba del XIX secolo.

Il vaudeville approda nel Nuovo Mondo, conquistando l’America quasi quanto Colombo!

Sommovimenti politici, guerre devastanti e grandi depressioni non s’erano lasciate intenerire da una modalità di intrattenimento che – resistente come la gramigna – nasceva con la pretesa di indorare la pillola della tristezza ormai da decenni e decenni.

Sono stati gli anni ’20 del ‘900, ruggenti di nome e di fatto, a portare alla ribalta una simile genialità: partendo dalle taverne e dai café-chantant parigini, passando per le kleinkunst (letteralmente “accademie di piccola arte”) olandesi, conoscendo un meraviglioso exploit nel kabarett tedesco e, infine, raggiungendo una irrefrenabile apoteosi negli US, dove Chicago assurge a location prediletta per metter su le migliori music hall che si potessero immaginare.

La talentuosa Peggy Lee dà il via alla sua brillante carriera proprio come ospite dei cabaret

Piume, frange e spettacoli d’espressione artistica varia non avranno salvato il mondo dalla barbarie cieca di quegli anni, ma hanno di certo contribuito a diffondere un po’ di benessere interiore e quel briciolo di spensieratezza che ha sempre il potere di condire anche le situazioni peggiori.

Oltre i sipari dei teatri e dietro ai lustrini delle soubrette, le lacrime scorrevano copiose come la pioggia invernale, irrorando le esistenze brillanti – solo al primo sguardo – di chi spendeva tempo e sudore pur di regalare un attimo di leggerezza al pubblico impaziente.

Tra tutte, le Dolly Sisters, Rózsika e Janka, ungheresi di nascita e statunitensi d’adozione, incarnano a pieno la controversa vicenda d’essere meravigliose e frammentate insieme, sgargianti sui palcoscenici e attanagliate dalla disperazione nel privato.
Protagoniste di spettacoli magnifici ed apparizioni cinematografiche, The Million Dollar Dollies hanno vissuto una serie di matrimoni fallimentari con ricchi magnati dell’universo proibizionista ma platinato, ritirandosi dalle scene pubbliche afflitte da quel morbo così viscerale da essersi guadagnato l’etichetta di un’epoca: la depressione.

Rosie e Jenny Dollies, com’erano conosciute nel mondo dello spettacolo, negli anni ’20

Intanto la Germania della libertaria Repubblica di Weimar alza il tiro in materia di trasgressione ed eccessi, aprendo le porte del leggendario Kabarett alla comunità queer: uomini travestiti da donne bellissime calcano i palcoscenici del pericoloso centro-Europa, veicolando il sacrosanto messaggio che, in numerose situazioni, niente è davvero come sembra!

Berlino, qualche primavera fa

La malinconia, simile alla nebbia bellica che nel giro di qualche decennio avrebbe invaso di nuovo l’umanità, riveste con le sue movenze struggenti e meravigliose anche i più grandi tentativi di rinascita e spensieratezza.

Nelle note degli artisti di cabaret, negli ammiccamenti delle fascinose ballerine, s’annida inconsapevole il germe dell’imminente declino… ma nulla, neppure un decennio ostico da deglutire come quello dei Twenties, mina l’innato spirito di rivalsa insito in qualsiasi espressione artistica.
Spicca, come un sorriso mesto tra le lacrime, la voce di Édith Giovanna Gassion, conosciuta ai più con lo pseudonimo di Édith Piaf, regina ed emblema di tutto ciò che il cabaret è significato per gli anni Venti e Trenta: lo sguardo disilluso dell’Arte che non cede alla disperazione ma ne fa tesoro.

Il primo brano inciso dall’artista francese, nel 1936

Ebbene, era fisiologico che – allo svoltare del millennio – i 20’s tornassero puntuali a martellare sul nostro calendario. Non si sfugge alla puntualità del tempo, né alla sua ricorsività.
C’è, al di là delle nefandezze che tutti i Twenties sembrano veicolare, un imperativo che non smette di stagliarsi imperioso: la Bellezza ci ha salvati una volta, ha il potere di farlo di nuovo.

Alle volte non è chiara la domanda a cui dobbiamo, per forza, rispondere, ma se ne sta lì, a pendere su di noi impietosa. Il cabaret è stata una risposta, una coraggiosa risposta, a qualsiasi domanda il dolore e la depressione avessero vigliaccamente posto.
Perciò salvate – in mezzo all’Inferno – ciò che Inferno non è. E dategli spazio e fatelo durare. Gli anni Venti sono finiti una volta, questo vuol dire che finiranno ancora.
La Bellezza, invece e per fortuna, non finisce mai.

Baci velenosi e malinconici (solo un po’),
Vanì Venom

Vanì Venom

Vanì Venom è l’alter-ego, a metà tra il letterario e il rocker, di Vanina Pizii, una giovane professoressa di Lettere appassionata di musica anni ’40 ’50 e ’60 e di tutto ciò che concerne il lifestyle legato al mondo vintage: dischi, foto, abiti, libri, arredi, auto e chi più ne ha più ne metta!